di Gianni Bessi

pubblicato su IlMessaggero.it il 2 luglio 2014

http://economia.ilmessaggero.it/economia_e_finanza/riforma-pa-gianni-bessi-messaggero/777034.shtml

L’analisi

Quando si parla di riforme uno degli elementi su cui c’è stato maggiore confronto – e raramente con esiti positivi – sono state le forme e i modi del passaggio dalla classica competenza amministrativa all’autonomia di governo dei territori regionali.

Il mio punto di partenza è la definizione di un ‘sistema’ da raggiungere con un’operazione che integri la riforma del titolo V e quella della Pubblica amministrazione, definendo i ruoli dei singoli soggetti. Per centrare il risultato serve un lavoro integrato tra il Ministero della Funzione pubblica e semplificazione e il Ministero delle Riforme. È la ‘conditio sine qua non’ del ragionamento che intendo sviluppare in questa nota. L’Italia si trova ancora in una situazione di ‘stallo istituzionale’, dopo un ventennio di rivendicazioni territoriali e autonomiste, con movimenti politici nati sull’onda di ‘rivendicazioni territoriali’, e dopo un processo normativo sfociato nell’elezione diretta degli amministratori degli enti locali, nella riforma del Titolo V della Costituzione, nel disegno di legge sulla devolution e nel continuo annuncio di nuove riforme. Un enorme potenziale che però non ha partorito risultati di uguale misura: anzi, ancora si attende il via a una dinamica che definisca la reale integrazione funzionale tra i livelli di governo (locale, regionale, nazionale e comunitario). Oggi il governo Renzi ha raccolto questa sfida e il lavoro sta andando nella giusta direzione quindi il presente documento propone alcuni criteri di lettura preliminare, alcuni concetti e alcune regole essenziali che possono favorire la formazione di programmi strutturati ed efficaci perchè per chi scrive “cambiare” solo “i vertici” non basta per “cambiare verso” .

Le premesse

Negli anni novanta si è sviluppato un processo di riforma delle autonomie locali, con l’obiettivo di realizzare un decentramento politico e amministrativo, prima con la legge 142/90 (successivamente inglobata nel decreto legislativo 267/2000, testo unico degli enti locali) e a seguire con le leggi Bassanini. Ma se il processo di riforma è stato ampiamente realizzato per quanto riguarda il trasferimento di funzioni e compiti, gli enti locali non hanno ricevuto dallo Stato le risorse sufficienti a svolgerli. È ovvio che i poteri senza le risorse sono inutili. Se non addirittura fonte di problemi. Accanto al mancato trasferimento di risorse, anche le manovre governative di contenimento del deficit hanno contribuito a disinnescare le potenzialità dell’autonomia amministrativa locale: il risultato è stato la rigidità dei bilanci degli enti locali, che non possono neppure agire sulle entrate proprie per i vincoli di spesa imposti dal Patto di Stabilità. Gli obiettivi del processo di riforma però continuano a essere condivisibili: la ridefinizione dell’assetto istituzionale dei vari livelli di governo e l’adeguamento dell’amministrazione centrale e periferica, sono elementi decisivi per avere uno Stato più ‘leggero’. Soprattutto un ‘sistema istituzionale’ dove competenze e sfere di azione dei singoli enti non si sovrappongono, non si incrociano. L’ideale è un sistema incardinato su tre principi: la sussidiarietà, che affida all’ente più vicino al cittadino lo svolgimento delle funzioni a esso destinate; l’adeguatezza, che impone una valutazione comparativa fra funzione da svolgere e organizzazione finalizzata al suo svolgimento; la differenziazione, che implica la possibilità di disegnare un sistema diversificato nell’affidamento di determinate funzioni. Ovviamente, e ritorniamo al nodo delle risorse mancanti, queste funzioni dovrebbero essere assicurate dal finanziamento previsto dall’articolo 119 della Costituzione. La sua attuazione rappresenterebbe il cardine su cui fondare la valorizzazione della responsabilità degli enti (e di chi ci lavora), attraverso il rafforzamento della loro capacità tributaria e il definitivo superamento del vecchio sistema dei trasferimenti statali.

Cosa fare adesso?

Se tutto questo è vero, sul versante delle riforme istituzionali c’è molto da fare. Visto il tempo perduto, il confronto sulle riforme necessarie per migliorare l’efficienza del sistema-Paese non deve esaurirsi nella rincorsa a una legge di riforma che da sola risolva ogni questione, ma deve tenere presente che per ogni passo compiuto nella direzione delle riforme legislative ne occorrono altrettanti per riformare i comportamenti dei soggetti coinvolti (in particolare di coloro che lavorano ogni giorno nella PA). E qui serve una seconda riflessione.

Le attuali dinamiche di governance dei sistemi pubblici ci devono fare riflettere, come sostiene Amartya Sen, sul fatto che all’economia non bastano le libertà d’intrapresa ma servono anche valori, magari fuori moda, come la scuola pubblica, la sanità pubblica, la giustizia sociale, uno stato sociale flessibile. Occorre uscire dai tanti classici luoghi comuni, da una visione rigida che oppone il pubblico al privato, attribuendo tutte le connotazioni positive a quest’ultimo e quelle negative al pubblico. Chiunque abbia avuto esperienze in entrambi i ‘mondi’ sa che né il privato né il pubblico hanno il monopolio delle virtù. Nella Pubblica amministrazione, per esempio, esistono competenze e personalità di valore assoluto, dall’Università alla Sanità; dai Ministeri agli Enti Locali territoriali. Esiste un capitale umano negli enti pubblici nazionali o territoriali che attende di essere valorizzato, di essere messo nelle condizioni di contribuire alla crescita dell’economia e della società. Un capitale umano che rischia di essere dilapidato. Invece è venuto il momento di ripetere che il ruolo del pubblico è indispensabile per invertire l’inerzia del Paese. Le grandi innovazioni americane, come ha più volte affermato la docente di economia dell’innovazione all’università del Sussex Mariana Mazzuccato, degli ultimi decenni sono il frutto di investimenti e scelte del settore pubblico; e le economie che sono cresciute grazie all’innovazione sono quelle dove lo Stato era il motore, non solo l’arbitro. Del resto basta guardare alla nostra storia: senza progetti pubblici e senza la cultura della pubblica utilità, una logica sensibile solo al profitto di breve periodo non avrebbe consentito di creare e mantenere infrastrutture e servizi indispensabili. In taluni settori – Sanità, Scuola, Università, Previdenza – senza pubblico non si sarebbero determinate le condizioni di base della nostra coesione sociale. In poche parole una “politica Keynesiana” che oggi non può che partire dall’Unione Europea.

La politica e il cambiamento

Il superamento della logica di contrapposizione pubblico-privato introduce un tema delicato. Non è più sostenibile una configurazione istituzionale che proceda per livelli istituzionali chiusi e autoreferenziali o dediti più al conflitto che alla cooperazione: come ho accennato sopra, i soggetti istituzionali dovrebbero ricoprire ruoli specifici e complementari.  Non regge più una configurazione istituzionale frantumata in settori di intervento non comunicanti, basata su criteri formalistici o, peggio, che non tenga in alcun conto del fattore tempo nel prendere decisioni. La domanda di politica almeno in termini di individuazione e di soluzione di problemi di interesse collettivo non è in declino. Anzi, si stanno consolidando nuove forme di domanda che sempre più spesso partono dal basso nei singoli territori per poi divenire emergenze di tutto il sistema-Paese. E che richiedono risposte adeguate in termini di programmazione e interventi da parte del pubblico, che deve abbracciare l’idea del ‘customer service’ nel momento in cui affronta un’esigenza proposta dai cittadini. Pensiamo al nucleo concettuale della Teoria dei Giochi di Nash, che in ogni condizione di opzioni multiple di scelta propone la ricerca di ‘modelli d’equilibrio’, di condivisione di regole, di piani strategici, di comportamenti ‘aperti’: i nodi e i problemi vanno affrontati in modo articolato, con un ottica pluriennale, in modo da concertare sacrifici e priorità tenendo conto che ciascuna parte sociale dovrà ottenere benefici.

Rilancio o irrilevanza

La politica è a un bivio: accettare un destino di crescente irrilevanza oppure raccogliere le sfide dei nuovi contesti sociali ed economici e divenire un ‘valore aggiunto’ per il Paese. La risposta alla nuova ‘domanda di politica’ (ma sarebbe meglio dire di ‘buona politica’, che di cattiva ne abbiamo avuta anche troppa), a cui accennavo deve partire da una presa di coscienza del ceto politico e amministrativo: chi lavora nel pubblico deve pensare o bisogna stimolare che inizi a pensare al proprio ruolo con orgoglio, sapendo di essere una risorsa e non un “parassita” (come vuole la vulgata proposta dai demagoghi di turno). Nuove responsabilità e nuove motivazioni, ecco cosa serve per riconsegnare al personale pubblico la dimensione che gli appartiene. Perché sia una risorsa insostituibile, come deve essere in uno Stato moderno. In questo senso, servono sia innesti di personale giovane sia una rimotivazione dei tanti funzionari e dirigenti seri e preparati (che sono tanti). La meta da raggiungere è chiara: un sistema pubblico del fare, che ritrovi e rilanci subito una campagna di “motivazione”, che spinga migliaia di funzionari pubblici, di persone impegnate a riscoprire l’orgoglio d’appartenenza e la voglia di esserci, di partecipare.

Occorre anche in questo caso essere chiari. Non è sufficiente proporre un catalogo di buoni temi. Occorre affrontare le domande e le risposte (dai bisogni primari delle persone: sociali, del lavoro, le attese per il futuro, le paure, le insicurezze) con una preparazione superiore al passato, perché siamo consapevoli che le domande sono complesse e, quindi, debbono esserle anche le risposte. Non si può cadere nella trappola di fornire risposte standardizzate: per questo la preparazione deve passare da una formazione scrupolosa. Infine, l’importanza di analizzare e trovare risposte al nodo delle riforme istituzionali e della riforma del lavoro della PA deriva dal fatto che abbiamo di fronte questioni enormi e, in molti casi, totalmente inedite: sappiamo che non esistono soluzioni facili e preconfezionate. E che in campo politico, sociale ed amministrativo dovremo sperimentare con coraggio innovazioni e alternative, anche creative. E che c’è bisogno del contributo di tutti.