Pubblicato su il Messagero il 28 aprile 2022
di Gianni Bessi
L’invasione russa dell’Ucraina è iniziata appena due mesi fa e per i paesi energivori, fra cui anche l’Italia, si cominciano a intravedere i nodi della ‘transizione energetica’. I paesi dell’Ue, in particolare la Germania, prima che iniziasse la guerra in Ucraina si confrontavano su dove e come diminuire progressivamente l’utilizzo delle fonti fossili, non solo per produrre energia ma anche nei trasporti, per esempio, o nel riscaldamento.
Iniziata la guerra il tema è mutato e al centro è finito, inevitabilmente, il ‘che fare’ per cambiare il principale fornitore di gas, cioè la Russia.
E, ancora inevitabilmente, nel dibattito sulle sanzioni da attuare per indebolire Putin il pacchetto energetico è all’ordine del giorno. Fatalmente, proprio la Germania, cioè il paese in Europa – ma forse nel mondo – la cui economia è la più dipendente dalle forniture di Gazprom ha preso la posizione più netta. Parlando il linguaggio semplice della verità. Il no al bando del gas russo è arrivato per bocca del premier Scholz – che guida da dicembre 2021 la cosiddetta coalizione ‘semaforo’ – così definita dai tre colori che identificano i partiti che lo compongono, rosso per la Spd, verde per i Grüne e giallo per i liberali del Freie Demokratische Partei– senza girare attorno al problema, sfoderando quel pragmatismo di cui spesso i tedeschi vengono accusati ma che è un modello di comportamento sedimentato.
La presa di posizione del governo tedesco, il cui ministero dell’economia e della protezione climatica è guidato dal leader dei Verdi Robert Habeck, era stata preceduta dalla posizione altrettanto netta della Confindustria tedesca, la Bundesverband der Deutschen Industrie, e dei sindacati: entrambe le associazioni, con un comunicato congiunto, avevano lanciato l’allarme sulla sopravvivenza della quarta economia del mondo e, per usare un’espressione abusata, la ‘locomotiva dell’Europa’. Perché uno shock energetico potrebbe e innescare uno shock economico, e quindi una recessione, che avrebbe conseguenze anche – soprattutto? – dal punto di vista sociale. E le conseguenze sociali producono quasi sempre comportamenti irrazionali ed estremisti. Senza dimenticare il pericolo, sempre in agguato, di una spirale inflazionistica dei prezzi che a Berlino ricorda il tragico passato della repubblica di Weimar.
L’uscita congiunta di Confindustria e Sindacati non è sorprendente perché dietro c’è un metodo politico, economico e sociale che risale agli anni 50, quando fu fondata la mitbestimmung, cioè l’intesa imprenditori-sindacali. Questa ‘cogestione’ delle fabbriche, dopo la fine della seconda guerra mondiale e del nazismo ha permesso, insieme ad altri elementi, di strutturare un modello di capitalismo alternativo, seppure non antagonista, a quello americano. Il modello Renano.
Non solo il governo Scholz o il binomio Confindustria-Sindacati ha preso una posizione netta, ma ha fatto sentire la sua voce anche la Bundesbank, che ha dichiarato, numeri alla mano, che senza il gas russo la Germania perderebbe 180 miliardi di euro. A quanto pare non sono spiccioli nemmeno per Francoforte. Le prime risposte alla presa d’atto della situazione di stress energetico non si sono fatte attendere, a cominciare dalla decisione di riprendere l’estrazione di gas nazionale: la Germania lo estrarrà dal giacimento nel Mare del Nord sopra Schiermonnikoog e l’isola di Borkum. «Non possiamo chiedere altro gas all’Olanda e rifiutarci di estrarre il nostro», ha commentato il ministro per gli affari economici della Bassa Sassonia, Bernd Althusmann, annunciano la decisione. Inoltre la Germania ha messo a bilancio 3 miliardi per acquistare rigassificatori galleggianti.
Spostiamoci da Berlino a Roma per vedere cosa succede. Anche da noi, come in Germania, avremmo tutte le ragioni per parlare il linguaggio della verità. Due soli esempi. Intanto se per i tedeschi il blocco al gas russo porterebbe a una perdita di 180 miliardi, per noi in proporzione la stessa sarebbe dell’ordine di 100 miliardi. E sono sicuro di non sbagliare previsioni.
Il secondo riguarda Eni: leggendo l’ultima relazione finanziaria alla voce Global Gas & LNG Portfolio si scopre che le attività di vendita di gas e Gnl ammontano a 74 miliardi di metri cubi, dei quali 30 miliardi nel 2021 erano di provenienza russa. Cosa succederà a Eni nel caso che i paesi dell’Ue decidano di procedere col bando totale del gas russo? Eni vedrebbe venire meno quote di fatturato per circa 30 miliardi di metri cubi e, come conseguenza, dovrebbe trovare altri fornitori per fare fronte ai propri impegni contrattuali di trader. Senza contare che Eni ha ovviamente ancora in essere contratti con Gazprom.
A mio parere qualcuno domanderà alla assemblea di bilancio del cane a sei zampe prevista per l’11 maggio quanto gas russo Eni ha ancora contrattualizzato per i prossimi anni. Una domanda che indirettamente andrebbe girata anche al governo, che attraverso Cassa depositi e prestiti controlla il 30 per cento di azioni del colosso energetico italiano.
Va bene quindi procedere nella ricerca di nuovi volumi di gas da altri fornitori che siano Algeria o Congo ma al governo e al parlamento va posta l’urgenza che si proceda anche con un programma nazionale, con iter su permessi di estrazione del nostro gas, per i rigassificatori navali, per i parchi eolici, per la cattura della CO2, calibrati sull’emergenza ma anche sulla prospettiva che non evaderemo dalla trappola energetica così presto.
Ecco, forse anche a noi farebbe comodo un po’ della sincerità un po’ brutale dei tedeschi. Ci permetterebbe di evitare un errore anzi un azzardo: quello di limitarsi a scommettere sul fatto che tanto prima o poi la guerra finirà e tutto tornerà come prima.
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