Pubblicato su startmagazine.it il 1 novembre 2020
Russia e Arabia Saudita, due dei maggiori produttori di petrolio del mondo, si sfidano fino alle estreme conseguenze. L’approfondimento di Gianni Bessi
David Mann, tranquillo commesso viaggiatore, sta compiendo il suo solito giro in macchina quando viene invitato al sorpasso da un grosso camion che lo precede. Subito dopo l’autocarro lo sorpassa a sua volta: è l’inizio di una allucinante sfida (Duel, 1971). Non si ferma il nostro viaggio in questo 2020 in bilico fra pandemia e spinte geopolitiche.
Russia e Arabia Saudita, due dei maggiori produttori di petrolio del mondo, si sfidano fino alle estreme conseguenze scommettendo sulla propria capacità di sopportare il dolore nel bungee jumping in atto nella guerra dei prezzi.
L’Arabia Saudita alla guida del club Opec, di cui è azionista di maggioranza, ha pianificato i tagli alla produzione per frenare il valore del barile, che si era assestato sui 50 dollari. Unico ostacolo alla attuazione della strategia della monarchia islamica era convincere l’ospite russo, invitato d’onore, ad accettare di condividere un menu già predisposto secondo i gusti di altri.
La decisione di Mohammad bin Salman di confrontarsi in questa guerra dei prezzi con la Russia deriva dalla scelta di mettere in discussione le relazioni con l’unico paese in grado di contrastare l’Arabia sul piano delle speculazioni di mercato globale sul prezzo del petrolio, di cui egli vorrebbe poter disporre piacimento. Ridurre la Russia a miti consigli, dopo avere stretto fortissimi legami commerciali con la Cina e nella convinzione di poter disporre a proprio piacere dell’appoggio statunitense, sarebbe stato triplo carpiato premiato con il massimo del punteggio. In definitiva, la scelta del principe ereditario era guidata dalla economia piuttosto che dalla sicurezza a lungo termine.
Mosca, rifiutando l’accordo sui tagli imposti dall’Arabia Saudita, ha fatto saltare il patto siglato nel 2017 per la gestione delle forniture globali di petrolio; e scegliendo di vedere il bluff dell’avversario ha provocato la caduta del prezzo del petrolio.
Riyadh ha risposto di pancia con tagli unilaterali che hanno abbassato il prezzo di vendita (il proprio e quello di tutti i membri dell’Opec) e ha annunciato piani per aumentare massicciamente la produzione spingendo ulteriormente il prezzo al ribasso.
Perché la Russia ha pensato di potersi mettere alle spalle la collaborazione informale con l’Arabia Saudita e gli altri paesi dell’Opec? Le ragioni sono semplici. In primo luogo perché dispone di un grande cuscino finanziario, cioè ingenti fondi accumulati negli anni successivi all’ultimo crollo del prezzo del petrolio. In secondo luogo perché, a suo parere, i veri sconfitti di qualsiasi guerra petrolifera sono i produttori di gas di scisto statunitensi, il cui costo di produzione non sarà mai competitivo con il gas del golfo o quello siberiano. Infatti, la manovra che ha portato a un ribasso del prezzo da saldi estivi ha inflitto danni economici agli Stati Uniti e ne ha minato la capacità di utilizzare lo strumento preferito di coercizione internazionale: le sanzioni. Tutto questo con l’involontaria (?) complicità dei sauditi, cioè di coloro che rappresentano il maggiore alleato statunitense nel Golfo.
I bassi prezzi del petrolio hanno già costretto il regno wahabita a ottenere ingenti prestiti dai mercati finanziari internazionali. Gli ambiziosi piani di MBS per diversificare e semplificare l’economia saudita e trasformarla in un hub all’avanguardia del XXI secolo, che già appesantiscono il suo budget, avrebbero bisogno di essere sostenuti da un prezzo del greggio al barile di 80 dollari.
Chi paga allora? Le società nordamericane di servizi petroliferi e di perforazione da quest’anno fino al 2024 si troveranno ad affrontare debiti per 32 miliardi di dollari, prospettiva decisamente scoraggiante se si considera che ciclicamente i prezzi del petrolio, non appena il costoso gas americano prova a rialzare la test, finiscono per subire crolli innescati dalle speculazioni saudite e russe, che portano il prezzo del barile ai livelli minimi di 20 dollari.
Secondo Moody’s l’industria petrolifera e del gas statunitense ha circa 86 miliardi di dollari di debito nominale in scadenza nei prossimi quattro anni, uno dei più alti per qualsiasi settore. Il crollo del prezzo del petrolio rende particolarmente difficile per queste aziende rispettare i propri obblighi di debito e se i prezzi non ricominceranno rapidamente a salire lo spettro di un fallimento modello “Dallas” non è lontano. Non a caso l’attuale governo americano, con un intervento senza precedenti in difesa della lobby texana totalmente a carico dell’erario pubblico, prevede di acquistare milioni di barili di petrolio per le proprie riserve per dare fiato ad un sistema al collasso.
Altri fattori negativi quali la rapida e crescente diffusione dell’epidemia di coronavirus, il deterioramento delle prospettive economiche globali, la progressiva diminuita domanda di petrolio, il calo dei prezzi dei prodotti fossili e il calo dei prezzi degli asset stanno generando un grave ed esteso shock creditizio.
Il quadro attuale, in vista della prossima riunione a Vienna dell’Opec che è prevista per il 30 novembre e dell’incontro successivo con i non membri dell’Opec del primo dicembre, appare decisamente complicato e senza adeguate contropartite i due contendenti non molleranno un centimetro nella guerra dei prezzi in corso. I sauditi con un atto di ritorsione estrema minacciano di rilanciare al ribasso il mercato di petrolio. L’eccesso di combustibile rovesciato sui mercati potrebbe fare scorrere i titoli di coda di una guerra che non avrà vincitori ma, forse, almeno uno sconfitto: il sogno made in Usa di imporre il suo Gnl all’Europa.
Già, l’Europa… Cosa fa intanto la nostra Europa? Punta sui programmi e sui buoni propositi del Green Deal, che però senza budget e piani esecutivi integrati fra tutti Paesi dell’Unione saranno sempre sotto la spada di Damocle delle dinamiche del prezzo del re petrolio. Un re vecchio e malato, a quanto pare, ma che ha ancora attorno a sé una corte agguerrita di cavalieri e per questo non ha nessuna intenzione di abdicare. Il viaggio continua.