di Gianni Bessi
Pubblicato su Economia Finanze il Messaggero.it il 20 marzo 2015
Il settore offshore italiano ha subito un grave colpo quando, il 3 marzo, un emendamento presentato da Gruppo Autonomie Locali e Forza Italia che vieta la tecnica dell’air gun ha messo in minoranza il governo. Di fatto, prevedendo la reclusione da uno a tre anni per chiunque utilizzi questa tecnologia – usata in tutto il mondo per acquisire dati sul sottosuolo, anche nel campo geologico e sismico e quindi non circoscritta solo all’attività esplorativa – azzera qualsiasi attività di perlustrazione in mare e con essa ogni possibile ricerca e sviluppo futuro di giacimenti di metano e petrolio.
Quando ci riferiamo al settore offshore parliamo di uno dei ‘fiori all’occhiello’ della nostra industria. La costruzione di una piattaforma di estrazione costa un miliardo e in Italia operano imprese in grado di realizzarla in ogni sua parte a cominciare dalle strutture metalliche (a Ravenna per esempio c’è la Rosetti Marino, che è leader mondiale) e dai compressori (Nuovo Pignone-GE di Firenze). Diverse aziende italiane sono coinvolte nello smaltimento dei fanghi di perforazione (l’AVA SpA di Roma), nei test di perforazione e produzione (ci sono 6-7 società che se ne occupano, di cui tre intorno a Pescara), nella posa dei tubi coibentati (attività in cui sono attivi diversi soggetti, tra cui Saipem e la ravennate Micoperi).
Una filiera ‘lunga’ tutta ‘made in Italy’ che genera valore aggiunto e che produce una tecnologia di alto livello esportata in tutto il mondo: i nomi sono Eni, ovviamente, Saipem, Snam e le tante società che operano nella realizzazione di gasdotti in tutto il mondo. Un esempio per tutti: al campo offshore Shaz Deniz 2 in Azerbaijan, da cui viene estratto il gas naturale trasportato dal gasdotto Tap, lavora la ravennate Fratelli Righini, che ha costruito diverse attrezzature che sono servite a Saipem per la realizzazione del progetto.
Il voto sull’emendamento che penalizza chi utilizza l’air gun, dunque, sta preoccupando molto gli operatori del settore. Soprattutto le piccole e medie imprese dell’indotto, perché le grandi aziende comunque hanno la forza di concorrere per le commesse estere. Il rischio è quindi che entrino in crisi decine di subcontrattisti italiani, con un conseguente declino economico e lavorativo dei territori. Ma un altro effetto altrettanto importante è che i possibili investimenti delle compagnie petrolifere saranno dirottati altrove: per esempio in Croazia, dove si continua tranquillamente a usare l’air gun come tecnica di ricerca. Non dimentichiamo che la Croazia è un nostro diretto concorrente allo sfruttamento dei giacimenti in Adriatico; anzi, lo sta già facendo, mettendo in cassaforte ritorni economici in termini di royalties, tasse ed entrate valutarie.
Tutto ciò solleva un quesito importante e urgente: siamo certi che ci convenga continuare sulla strada della penalizzazione del settore energetico – come è stato fatto con l’approvazione dell’emendamento sull’air gun – procedendo tra l’altro in controtendenza rispetto al resto del mondo e finendo per condannare all’irrilevanza uno dei settori dove siamo all’avanguardia? Tra pochi giorni, dal 25 al 27 marzo gli operatori si ritroveranno, insieme ai rappresentanti dei governi di tutto il mondo a Ravenna per l’Offshore mediterranean conference, uno dei più importanti appuntamenti del settore energetico a livello mondiale. Il rischio è che gli argomenti centrali non siano lo sviluppo delle tecnologie e i possibili accordi economici, ma proprio il divieto di usare l’air gun.
Questa non è una battaglia ideologica, perché l’energia è con noi in ogni momento della giornata, è un elemento indispensabile, anzi insostituibile, della nostra vita: ecco perché non ci si può mai fermare nella ricerca di fonti energetiche, tradizionali e alternative. E il settore offshore non è solo una risorsa economica, ma anche sociale, perché produce ricerca e innovazione, e impiega lavoratori ad alto profilo professionale, dagli ingegneri progettisti fino alla manodopera specializzata.