Pubblicato su StartMagazine.it il 23 novembre 2018
di Gianni Bessi
La mossa di Trump contro l’Iran sul petrolio. Gli obiettivi degli Stati Uniti. E le manovre turche di Erdogan. House of Zar, dopo le puntate sullo scisma ortodosso in Ucraina, torna con una nuova trilogia puntando sulle pianure tra il Monte Ararat e le sorgenti del Tigri e dell’Eufrate.
Il ritiro degli Stati Uniti dal JCPOA (Joint Comprehensive Plan Of Action), l’accordo sul nucleare iraniano, con il conseguente ripristino delle dure sanzioni economiche a Teheran è un grosso problema per qualsiasi azienda straniera interessata a investire nel settore energetico persiano.
Il diktat di Trump penalizza, senza che siano ancora state esibite prove certe di misfatto, il più potente avversario dell’alleato saudita nella regione mediorientale, costringendo le imprese occidentali a ritirarsi dagli affari con Teheran.
Molte Oil&Gas Companies occidentali hanno già rescisso i contratti siglati con il governo iraniano mentre altre, comprese quelle italiane, nonostante per ora il Potus le abbia escluse dall’obbligo di applicare le sanzioni, tergiversano mantenendo un low profile e contatti discreti nella speranza che il buon senso faccia ripartire gli affari.
L’Iran detiene la seconda riserva di gas naturale del mondo ma attualmente non ha una adeguata capacità di esportazione (solo 10 BCM verso la Turchia, meno di quanto trasporta una condotta del Turkstream). Può contare su un elevato consumo nazionale ma risente pesantemente della mancanza di investimenti esteri, non riesce ad accedere alle nuove tecnologie mentre le risorse finanziarie sono quelle reperibili grazie alla commercializzazione estera del gas.
In apparenza sembrerebbe che il piano americano per soffocare l’Iran proceda senza intoppi e che si rischi il solito noioso racconto sull’imperialismo a stelle e strisce.
Ma c’è un ma.
La Turchia, per alleggerire i conti in costante “profondo rosso” è disposta ad aumentare l’acquisto di quote di gas naturale dall’Iran a “prezzo agevolato” rispetto a quello ben più oneroso importato dalla Russia e dalla Repubblica dell’Azerbaijan.
Come non è sfuggito a House of Zar, Erdogan avrà notato che in occasione della cosiddetta ‘judo diplomacy’ – perché l’incontro è avvenuto durante il recente World Judo Championship 2018 a Baku – il “dialogo politico bilaterale fra il presidente russo Vladimir Putin e quello dell’Azerbaijan Ilham Aliyev è stato ad alta intensità”. Il sospetto è che, vista l’occasione, avranno scelto per l’oro azzurro una Katame-waza, la tecnica del controllo.
Ne consegue che, se Iran e Turchia riusciranno ad accordarsi sul prezzo e se la prima fosse in grado di soddisfare la richiesta aumentando i volumi, Erdogan preferirà acquistare il gas da Teheran anziché dagli altri produttori.
L’Iran avrebbe bisogno di circa 7/8 miliardi di dollari per realizzare le infrastrutture necessarie a portare il gas naturale fino ai confini con la Turchia. Per l’Iran non è economico esportare il gas via pipeline al prezzo attuale di mercato, mentre la Turchia possiede una buona rete di gasdotti nazionali e il gas iraniano a basso prezzo approvvigionerebbe la parte sud-orientale del Paese che ha inverni freddi e uno sviluppo industriale da completare.
L’affare per Erdogan sarebbe di riuscire a coprire una buona parte dei propri consumi interni con il gas persiano e fare solo da terra di transito verso gli altri Paesi per quello trasportato dal Turkstream e dal Tanap, ricevendo in cambio gli introiti derivanti dalle royalty.
Ankara è interessata a importare più quote di gas naturale dall’Iran e continua a recitare più parti in commedia: amica di Putin quando serve, amica di Trump quando deve, amica dell’Europa in particolare della Merkel quando fa comodo, amica di Rouhani se il prezzo è conveniente.
La Turchia esprime senza sforzi la propria secolare natura mercantile, flirtando di volta in volta con l’interlocutore di turno con il chiaro obbiettivo di ribadire la propria posizione dominante, quale crocevia naturale dei più importanti mercati mondiali.
Proprio a Istanbul lo scorso lunedì si è svolta la cerimonia per festeggiare il completamento della sezione marina del gasdotto russo-turco che ha visto un raggiante presidente russo Vladimir Putin ospite del suo “collega” Recep Tayyip Erdogan.
L’incontro, i due leader si sono visti già tre volte in novembre, non deve suggerire conclusioni affrettate; l’amicizia fra i due paesi non è inossidabile e Zio Vlad conosce bene il suo interlocutore, non fosse che per la lunga storia di guerre tra le due nazioni. E come diceva Von Otto Bismarck: “un russo non si fida neppure di sé stesso”.
Ed è probabile che non si fidi neppure di Mehmet Ogutcu, presidente del Bosphorus Energy Club, quando ha definito la realizzazione della parte a mare del Turkstream, un grande successo nonostante che gli Stati Uniti si siano impegnati per bloccare il progetto. Aggiungendo che la pipeline renderà più solide le relazioni tra Russia e Turchia.
Il Turkstream aveva rappresentato un vero colpo di genio dello Zar nel momento in cui la Russia era stata messa pericolosamente in un angolo a causa della cancellazione del Southstream a causa del veto europeo e del peso degli impegni siglati per svariati miliardi. Eppure nonostante le dichiarazioni appassionate di oggi non sembra essere più l’opzione più affidabile per il transito del gas russo verso i mercati del sud-est europeo.
Dato lo scenario attuale Mosca sta prendendo in considerazione di non vincolare la propria strategia commerciale nel corridoio sud esclusivamente con un interlocutore come la Turchia. In ottica futura questo significherebbe realizzare ulteriori due condotte sottomarine in direzione Bulgaria, diversificando l’approccio al mercato europeo e tentando il delicato equilibrismo di salvaguardare le relazioni con il califfo ottomano.
La Bulgaria, intanto, si è portata avanti con i lavori riformulando la richiesta autorizzativa a Bruxelles per le nuove linee sottomarine, con un copia e incolla della richiesta che Berlino fece per Nord Stream2.
Qualcuno dirà no anche questa volta?
(1.segue)