Pubblicato su Startmagazine.it il 18 luglio 2020

di Gianni Bessi

Recovery Fund tra Roma e Berlino. Il progetto di Merkel nell’approfondimento di Gianni Bessi, consigliere regionale Emilia-Romagna e autore di “House of zar – Geopolitica al tempo di Putin, Erdogan e Trump” (Edizioni goWare)

“Ho sentito parlare bene di Lei”. Il Ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio deve avere scoperto il principio di autorità e la sua efficacia nella comunicazione, perché ha sentito la necessità di citare questa frase che la cancelliera tedesca Angela Merkel gli avrebbe rivolto. Del resto proprio il Ministro, secondo alcune fonti, avrebbe tentato di iscriversi al club degli autorevoli, dichiarando che Mario Draghi, che aveva appena incontrato, gli aveva fatto una buona impressione.

Ovviamente dietro l’incontro fra il titolare della Farnesina e la più potente politica europea c’è ben altro. C’è soprattutto la partita che l’Europa deve giocare col proprio futuro, che non è solo politica e non può essere giocata sul campo del consenso a breve termine, ma necessita un dialogo che ha bisogno di condivisione tra tutti i partecipanti. A Berlino se ne sono accorti e anche a Roma, forse. La speranza è che, restando nella metafora ludica, si sia d’accordo sulle regole e sulla posta in palio.

A Berlino comunque sanno che in una fase dove gli Usa sono in crisi e della Cina meglio non fidarsi troppo, senza di noi anche la loro pur forte economia ha problemi. Questo ispira un primo sospetto nel nostro breve viaggio nella Germania al tempo della Covid 19: non è che stanno facendo fare agli olandesi la parte del poliziotto cattivo sapendo benissimo che con Rutte sul recovery fund si troverà prima o poi un accordo?

Ci starebbe se guardiamo alla storia della cancelliera, espressione di quel sincretismo tedesco che nella Germania post bellica è stato la matrice sotto la quale si è cercato sempre un equilibrio e un consenso tra le sue molte anime, quelle cattolica e protestante sul versante religioso e quelle socialista e ordoliberista per la parte economica e sociale.

Chi è del resto Angela Merkel? È la leader della potente Cdu, l’Unione Cristiano-Democratica e dei suoi fratelli e sorelle bavaresi, le cui radici affondano salde e profonde nella ricostruzione post-bellica; in particolare nella Germania occidentale, dove l’unica istituzione storica rimasta in piedi nel post nazismo era proprio la chiesa cattolica.

Non è solo una matrice religiosa bensì una ideologia ed un progetto politico a fortissima vocazione interclassista. Questa lettura del sentimento nazionale tedesco nasce dall’interpretazione del suo leader Konrad Adenauer che poteva contare sull’aiuto di personaggi di grande prestigio come il gesuita Oswald von Neil-Breuning, protagonista di primo piano nella formulazione della dottrina sociale della chiesa. Questa, espressa nell’enciclica Quadragesimo anno e pubblicata nel 1931, delineava un equilibrio e un sincretismo sostanziale fra Stato e libera iniziativa economico-sociale, ed anche fra capitale e lavoro e non solo.

Angela Merkel è l’ultima rappresentante del sincretismo tedesco. E ne ha sposato in questi tre lustri di governo le sue tradizioni e rappresentazioni come i suoi predecessori dal padre dell’Ostpolitick Willy Brandt a quello dell’unificazione Helmut Kohl fino al socialdemocratico riformista Gerald Schroeder.

Un esempio caro all’economista bolognese Alberto Corazza, di cui mi permetto di riprendere alcune riflessioni, è il rapporto tra la componente welfaristica, che è avanzata placida quanto inesorabile negli anni della ricostruzione, e lo spirito liberista che non è venuto per questo declinando. Entrambe le istanze hanno saputo rinunciare alle proprie estremizzazioni – ai facili slogan – per intrecciarsi fino, a volte, a fondersi.

Un’altra lezione importante che la Germania ha dato prova di aver promosso, oltre che appreso, riguarda il valore delle istituzioni centrali dell’Unione Europea, con una predilezione per quelle di tipo monetario. Condividere cioè tanto le regole quanto i metri di giudizio è una condizione necessaria per una convivenza armoniosa, da cui sola possono scaturire prosperità e benessere.

Determinante è stato l’impulso del liberismo tedesco, che affonda le sue radici nelle tesi Ordoliberaliste della scuola di Friburgo, con la sua definizione delle strutture istituzionali e delle regole del gioco, in particolare riguardo alla istituzione di governo della moneta e alla centralità delle politiche della concorrenza.Il paese che più di ogni altro è stato – ed è ancora – il contraltare a questa direzione di marcia nelle istituzioni europee è stata la Francia, che ne rappresenta il polo “politico” in quanto più sensibile alle questioni legate al consenso intergovernativo. Le linee guida sostenute dall’Eliseo in materia di politica agricola ne sono un buon esempio, con la scelta di premiare certe categorie sociali che ha prevalso su qualunque considerazione “economicistica”. L’eclettica Germania non ha disdegnato questo versante, sostenendo ad esempio la produzione di latte bavarese, alla luce della centralità della regione nel gioco politico tedesco ben più che in virtù di considerazioni economiche.

Alla vigilia del vertice di Bruxelles sul recovery fund, la propensione tedesca per un pragmatico sincretismo la orienta su posizione riassunte nella formula: “l’Europa ha bisogno di noi, così come noi abbiamo bisogno dell’Europa” (non mancano tuttavia voci contrastanti, come dimostrano i ricorsi alla Corte Costituzionale di Karlsruhe dove è in programma una prossima tappa del nostro viaggio).

Una nuova stagione per l’Europa e – azzardiamo – per il mondo, sarà quando saremo capaci di superare questa distinzione risorgimentale tra “noi e l’Europa”; quando cioè cominceremo a parlare, pensare ed agire accorgendosi che l’Europa è il nome proprio di questo “noi”. Ma non siamo ancora a questo punto. Sostenere una partita complessa come la guida politica dell’Europa, che non si limiti al solo semestre di presidenza, richiede alla Germania una forza economica ed una solidità interna tali da renderla identificabile come modello.

Filippo Onoranti, mio compagno di viaggio, mi fa sbirciare tra gli appunti del prossimo corso di etica della Facoltà di Ingegneria di Bologna: mi cade l’occhio su un nome importante della cultura tedesca, Immanuel Kant. La sua etica si fonda su un assunto, tanto semplice quanto profondo: tratta gli altri come scopo e mai come mero strumento. Facile a dirsi…

E’ risaputo che l’economia tedesca si basa su un apparato produttivo potente, risultato di un’armonia e di un equilibrato mix tra grande, media e piccola impresa. Questa ricchezza di modelli imprenditoriali si poggia e nel contempo nutre un tessuto sociale e una struttura territoriale, nei quali l’imprenditoria è intimamente infusa\amalgamata. Un modello certo di valore, e che meritoriamente potrebbe ambire a diventare un paradigma di sviluppo europeo. Ma con alcune cautele. Ad esempio tenendo conto di una lezione imparata durante la crisi greca che possiamo riassumere con la frase “non si può fare i liberali solo col welfare degli altri!” Oppure, con un riferimento storico di poco anteriore, che alla Germania dovrebbe suonare ancora più familiare: il welfarismo in un solo paese non ha mai funzionato.

L’unità europea e la globalizzazione, sono due partite che non si possono giocare se non rendendo elastici e permeabili i confini, sia sul piano politico che su quello economico. La mancanza di unità su uno dei due piani è inevitabilmente una frattura sull’altro. L’economia tedesca, italiana, francese sono solo esteriormente nazionali mentre nel loro fondamento partecipano, ormai da mezzo secolo, a una catena del valore marcatamente europea e anche internazionale.

A dimostrazione che l’Europa o è unita o non è, ci rifacciamo alla testimonianza delle nostre fonti del settore dell’energia – che, vale la pena ricordarlo sempre, è il vero pane del mondo contemporaneo: il potente Ministro dell’Economia tedesca Altmaier a un workshop con gli amministratori delegati di 100 imprese italiane ha dispensato frasi molto ‘incoraggianti’ verso l’Italia, tracciando un’agenda determinata a chiudere entro luglio il Recovery fund.

E per finire col Recovery fund… I soldi ci saranno, e probabilmente in grande quantità, ma dovranno andare verso investimenti e impieghi a lungo termine, soprattutto sui tre assi del green deal ovvero innovazione, ambiente e industria. Purtroppo qui, nonostante la solidarietà di Altmaier, una certezza l’abbiamo: a oggi l’Italia non ha uno straccio di piano, un abbozzo di road map su come impiegare i fondi. E questa mancanza preoccupa i tedeschi perché se noi non stiamo al passo con le sfide sanno che tale mancanza avrà un impatto sul loro sistema del valore e sulla domanda economica in generale.

Basta helicopter spread of money!

Prepariamo i trolley per trasferirci al vertice di Bruxelles.

Il viaggio continua.