Pubblicato su Startmagazine.it il 28 marzo 2020

di Gianni Bessi

Quali sono i veri obiettivi delle mosse dell’Arabia Saudita sul petrolio? L’approfondimento di Gianni Bessi 

La pandemia che ha cambiato la routine del mondo in maniera brutale ha ovviamente stravolto anche l’economia: la mosca di House of zar se ne è accorta posandosi sul muro dello studio (di uno degli studi?) del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, da molti indicato con l’acronimo MBS. E cosa ha scoperto? Abituata a fronteggiare crisi sanitarie provocate da coronavirus molto più prepotenti, come quello che dal 2012 provoca la Mers, ovvero l’influenza dei cammelli, che causa la morte di un paziente su tre, l’Arabia, attraverso l’azione del suo politico al momento più famoso, si è concentrata sull’attività che le riesce meglio: creare tensioni grazie al prezzo del petrolio.

Perché è vero che migliaia di persone si stanno ammalando, ma anche che “lo spettacolo deve andare avanti”, dove lo show in questo caso è la guerra infinita per la supremazia in campo energetico. Così mentre anche la nostra mosca impara che Favipiravir e Remdevisir non sono ministri arabi con deleghe speciali e Tocilizumab non è il nome di un sovrano azteco, l’Arabia ha rotto il patto triennale che la legava alla Russia, l’altro gigante della produzione di oro nero e si appresta a combattere una guerra che sta mettendo in ginocchio la sua economia.

Cosa è successo? Durante l’ultima riunione dell’Opec, Putinland si è rifiutata di firmare i tagli imposti dall’Arabia Saudita, sono volati gli stracci e si è conclusa l’intesa costruita a fatica fra le due nazioni. Il risultato è stato l’inevitabile crollo del prezzo del petrolio. A quel punto Riyadh ha fatto proprio il celebre adagio francese “à la guerre comme à la guerre” e ha ridotto il costo del barile, annunciando un aumento della produzione che ha contribuito a deprimerne ancora di più il prezzo.

Insomma, la morale che ci suggerisce la mosca è che, virus o non virus, ancora una volta “tutto dipende dal prezzo del petrolio”. Dietro l’apparente linearità dell’espressione si muovono immense forze, decisioni di investimento o di spesa dove gli andamenti previsti o imprevisti a volte sono incomprensibili anche ai più esperti. E anche a quelli che le decisioni le hanno prese: il basso prezzo del barile ha ristretto le entrate dell’Arabia costringendola ad andare sui mercati internazionali per prendere a prestito le risorse indispensabili per mandare avanti lo Stato e continuare nella cammino della Saudi vision 2030 (1), il piano di Mohammed bin Salman di trasformare il regno dei sauditi in una nazione che non sia così dipendente dal petrolio, sviluppando altre attività economiche e in genere modernizzandola sul piano culturale. Per sostenere il progetto l’Arabia ha bisogno di mantenere un certo budget statale, che è garantito solo a patto di vendere il greggio a 80 dollari al barile.

La torsione che è stata impressa con la fine dell’accordo con la Russia ha gelato le ambizioni del principe ereditario e confermato le perplessità degli investitori internazionali, ora che la strategia Aramco, la società statale fondata per controllare la produzione petrolifera, pare sia piegata a sostenere l’ambiziosa visione di MBS. Che puntava a mettere in un angolo la Russia, unico player in grado di contrastare l’Arabia sul piano della speculazione sul prezzo del greggio, e grazie ai nuovi rapporti con la Cina costringere anche gli Stati Uniti a rinunciare ai propri piani di egemonia nel settore.

Questa ‘diplomazia trilaterale’ in salsa saudita è nutrita anche dai crescenti dubbi circa l’affidabilità degli Stati Uniti come alleato e protettore di ultima istanza: è diventata operativa quando la Cina ha aperto il suo primo impianto all’estero per la produzione di armi di difesa proprio in Arabia Saudita. Stiamo parlando del CH-4 Caihong, o drone Arcobaleno, e delle attrezzature associate al suo funzionamento. Il CH-4 è paragonabile al drone armato americano MQ-9 Reaper che Washington ha rifiutato di vendere al regno saudita facendo seguito alle polemiche sul suo uso incondizionato nel conflitto Yemenita.

Invece la coppia Russia-Arabia è scoppiata dopo alcuni anni in cui è andata d’amore e d’accordo: basta ricordare alcuni momenti simbolici come il 14 giugno 2018, quando nella tribuna d’onore dello Stadio Lužniki di Mosca per la partita d’esordio dei mondiali di calcio tra Russia-Arabia Saudita, Vladimir Putin cura con particolare riguardo il suo ospite d’onore, cioè lo stesso MBS. O come a Buenos Aires il 30 novembre 2018, quando Putin e bin Salman, incrociandosi prima dell’inizio dei lavori del G20, si salutano calorosamente con un high five degno della migliore tradizione del football americano.

In realtà, alla fine di tutte queste manovre l’unico fatto che resta è che il prezzo del petrolio è crollato: siamo alla geopolitica al suo meglio, un campo dove gli strumenti finanziari sono un culto per iniziati, cioè i trader di ogni nazionalità età e religione che gestiscono operazioni orizzontali mirate a creare o distruggere le fortune dei contendenti più che le dinamiche interne domanda/offerta del mercato petrolifero.

E comunque, come ben sanno gli esperti, il prezzo del “re petrolio” non dipende solo dalla disponibilità e dal ruolo sempre più speculativo della finanza come visto, ma anche dal futuro di tutte le fonti energetiche (comprese le rinnovabili). E qui serve introdurre uno spunto di riflessione su questa guerra dei prezzi, che se restano bassi sono i peggiori nemici della ricerca sulle fonti alternative. Forse, i petrostati vogliono cogliere l’occasione di respingere l’offensiva della green economy in un momento particolarmente favorevole, cioè all’inizio di una crisi economica mondiale di natura inedita. E ricordiamoci che il prezzo del petrolio incide sulla produzione agricola, perché se è troppo elevato produce un incremento dei costi di produzione favorendo anche la scelta da parte dei produttori dei biocarburanti.

Un’altra ovvietà è che la crisi pandemica suggerisce un’altra legge fondamentale, cioè che il prezzo del petrolio dovrebbe essere sufficientemente basso da non influire negativamente sull’economia. Nel senso che non possiamo permetterci una crisi di questa portata con un prezzo del barile troppo alto. Elementare o meno questo ci insegna la storia della società capitalista petrolifera.

Allora la  mossa saudita è insensata? In parte forse, ma c’è una spiegazione, che si spinge pericolosamente nei territori della fantapolitica, che però appare sensata: e se la dinastia saudita avesse deciso di pompare più petrolio per sostenere la ripresa della Cina e dell’India, non solo dei loro sistemi industriali ma soprattutto di quelli agricoli con l’obiettivo di soddisfare un mercato interno in sofferenza da coronavirus? Questo permetterebbe di garantire contratti a lungo termine con le tigri orientali colpendo allo stesso tempo gli odiati vicini iraniani.

Fantapolitica, appunto. Ma forse la fantapolitica non esiste più, perché la realtà la supera ogni giorno.