Pubblicato da Formiche.net del 19 giugno 2017
di Patrizia Licata
Gli esempi di Basilicata e Emilia-Romagna e il vero e il falso delle trivelle. Fino al caso Norvegia dove l’industria estrattiva e il turismo hanno sperimentato un vero matrimonio col “rig-spotting”
È possibile far convinvere le infrastrutture (le cosiddette grandi opere) con il paesaggio e la sostenibilità ambientale? Per molti no: lo dimostrano le resistenze no-Tav e no-Triv e le battaglie contro rigassificatori, reti di trasporto energetico, impianti di estrazione e stoccaggio. Ogni caso ha la sua storia e le sue motivazioni, ma per chi teme che l’industria estrattiva abbia un impatto sul turismo, i casi delle maggiori regioni produttrici di idrocarburi in Italia sembrano dimostrare che le trivelle non sono un deterrente.
TURISMO ROMAGNOLO E IN VAL D’AGRI SENZA CRISI
L’Emilia Romagna, la seconda regione italiana per produzione di idrocarburi con decine di piattaforme e centinaia di pozzi produttivi offshore, ha registrato nel 2016 48,2 milioni di presenze turistiche, 1 milione in più rispetto al 2015, e 10,2 milioni di arrivi. Sono cresciute sia la clientela nazionale (+2,4% gli arrivi e +1,9% le presenze) sia quella internazionale (+1,3% gli arrivi e +2,7% le presenze); per la Riviera (che ha 6 bandiere blu nel 2017) gli arrivi hanno segnato un incremento del 2,4% e le presenze un +1,4%.
La prima regione italiana produttrice di idrocarburi, la Basilicata, ha registrato un costante incremento del numero degli arrivi turistici nell’ultimo decennio: +60%, con picchi nel 2015, ma anche nel 2016 gli arrivi sono cresciuti oltre il 6%. La zona di produzione energetica per eccellenza, la Val d’Agri, ha visto aumentare dal 2006 al 2016 gli arrivi turistici del 39%, le presenze del 77% e il numero di esercizi ricettivi addirittura del 76%.
DALLA DIFESA DELLE LOFOTEN AL RIG-SPOTTING
Un esempio di come turismo e idrocarburi possono realizzare una convivenza di successo è rappresentato dalla Norvegia, numero uno dei produttori europei con quasi 4 milioni di barili prodotti ogni giorno (e decimo a livello mondiale). Il paese registra ogni anno 4,8 milioni di visitatori – quasi quanto i suoi abitanti; le presenze, cresciute dell’11% nel 2016, non appaiono penalizzate dall’industria petrolifera.
È anche vero che lo sfruttamento non è senza resistenze nemmeno in un Paese come la Norvegia che fa dell’oil&gas la sua principale ricchezza e primo motore economico. Mentre le aziende dell’energia gradirebbero esplorare i mari artici, presso le isole Lofoten, visto il depauperamento dei giacimenti tradizionali, le lobby dei pescatori e le associazioni del turismo, sostenute da Socialisti, Liberali e Verdi, si oppongono, perché aggredire i paradisi artici potrebbe danneggiare sia l’attività di pesca – che è una fonte di entrate importante per il paese – sia i flussi di visitatori che si recano nel Mare di Barents per ammirare paesaggi pressoché incontaminati.
Al tempo stesso qualche società petrolifera è stata capace di cavalcare nuovi business al punto tale da letteralmente sposare attività estrattiva e turismo: l’anno scorso si è svolto il primo tour turistico di una piattaforma (“rig-spotting“) in cui 120 visitatori, quasi tutti norvegesi, hanno pagato cifre comprese tra 700 e 3.500 dollari per quattro giorni a bordo del vascello Edda Fides e tour dei giacimenti Balder e Ringhorn e della gigantesca piattaforma Statoil Troll A nel Mare del Nord. I norvegesi, insomma, difendono la loro natura ma sono anche fieri della loro economia.
PRIMA DEL CARBON-FREE C’È LA CONVIVENZA SOSTENIBILE
Il mondo carbon-free dunque ci sarà, ma non è oggi. Nella transizione, in cui fonti nuove e fonti tradizionali conviveranno pur se con quote via via crescenti per le rinnovabili, la chiave di volta sarà il rispetto degli standard ambientali e la trasparenza e completezza dei dati sulle attività industriali, che, se non integri, finiscono per raccontare due storie diverse, come accaduto negli studi sull’impatto delle trivelle in Italia che, per Assomineraria (Report 2015), è tra i minori al mondo grazie allo sviluppo tecnologico, con zero perdite in mare e rispetto per gli ecosistemi, ma per Greenpeace (che ha usato dati del Ministero dell’Ambiente e di Ispra) causano spesso la contaminazione delle acque circostanti.
Proprio di trivelle si è parlato copiosamente nella primavera 2016 in occasione del referendum, poi fallito, voluto da alcune Regioni (qui i falsi miti sul tema raccolti da Formiche.net). Fuori dalle polemiche referendarie, negli stessi giorni la citata Regione Emilia-Romagna ha sottoscritto col Ministero dello Sviluppo economico un’intesa che può fare scuola: il protocollo coniuga la tutela dell’ambiente marino, della costa e delle attività turistiche con le istanze economico-industriali delle estrazioni offshore per la ricerca e coltivazione di idrocarburi, migliorandone la sicurezza, con un modello replicabile in altre regioni.