Da Formiche.net del 12 gennaio 2017
L’intervento di Gianni Bessi, consigliere regionale Pd in Emilia-Romagna
L’indice Dow Jones è in crescita e continua a stare sopra ai 19mila punti. Gli investitori spingono l’acquisto di titoli legati all’industria tradizionale e mineraria. È l’effetto Donald Trump alla Casa Bianca? Senza alcun pregiudizio vediamo cosa farà dal 20 gennaio prossimo.
Non c’è dubbio che i produttori Usa di carbone, petrolio e gas abbiano trovato in Donald Trump l’uomo della provvidenza. Lui è un convinto sostenitore della produzione intensiva delle fonti fossili? Non crede al cambiamento climatico? È scettico sulle energie rinnovabili? Tre sì e andiamo a capo. Le sue scelte in materia energetica sembrano segnate. Eppure ora non sarà semplice per il nuovo presidente prendere decisioni a senso unico.
Cominciamo col carbone, la più inquinante delle fonti fossili. Guardiamo agli Stati Uniti e vediamo che detengono le riserve di carbone più vaste al mondo e ne sono ovviamente anche il più grande produttore. Fino a due anni fa, il carbone generava quasi il 50% dell’elettricità statunitense, poi la percentuale è crollata a poco più del 30%: non tanto per motivi ambientali, quanto per la crescita esponenziale dello sfruttamento, grazie ai bassi costi, dello shale gas. Se Trump vorrà accontentare i produttori di queste due fonti finirà per mettere gli uni contro gli altri. E ci perderanno entrambi.
E il petrolio? Il nuovo presidente intende limitare il fracking, la tecnica di estrazione dello shale, oppure no? Tutto lascia pensare che cercherà di sostenerne la produzione con accorgimenti fiscali e l’eliminazione di vincoli ambientali, puntando a un ritorno alla crescita delle estrazioni sul suolo americano. Ma sarà un gioco simile alla corsa a ostacoli. Il boom della produzione Usa di greggio fino al 2015 è stato il fattore principale del crollo globale del suo prezzo. Rispetto a una domanda che cresce poco rispetto a una produzione che continua a superarla, i produttori di qualunque Paese soffrono e hanno atteso speranzosi l’accordo dell’Opec dello scorso dicembre.
Il vertice dei 14 Paesi Opec del 30 novembre scorso a Vienna ha sugellato l’accordo sul taglio di produzione (dopo 8 anni). La Russia, terzo produttore mondiale, ha convenuto al taglio. Alcuni principali osservatori e protagonisti rimangono perplessi sul congelamento della produzione. Il principale motivo è di non fare regali a Paesi che hanno costi di produzione più alti e che solo grazie a tagli dell’Opec potrebbero continuare a produrre senza rimetterci. E chi è il principale di questi Paesi? La risposta è scontata: ancora gli Stati Uniti. Congelando la produzione, l’Opec potrebbe far risalire i prezzi del greggio, consentendo agli Usa di produrre di più. E gli altri grandi esclusi da questo conclave oltre agli Usa come il Brasile, Cina, Canada cosa faranno? Questo scenario sempre globale e mobile è un elemento ulteriore a favore della prospettiva di una possibile instabilità dei prezzi nel 2017, alimentato sia da sovrapproduzione sia dallo scarso coordinamento dell’Opec e degli altri produttori? Trump ha di fronte un bel gioco su cui cimentarsi. Che però è anche un dilemma, perché molte società americane che producono petrolio da shale non sopravvivrebbero a prezzi troppo bassi.
Il gioco non cambia se prendiamo in esame le fonti rinnovabili, soprattutto biocarburanti ed energia solare. Gli Stati Uniti producono quasi il 60% dell’etanolo mondiale – di gran lunga biocarburante– continuando in un boom che non sarebbe stato possibile senza le protezioni garantite dalle amministrazioni, sia repubblicane sia democratiche, agli agricoltori. Sussidi legati non tanto a uno spirito ambientalista, ma a crudi motivi economici: senza la produzione di biocarburanti, gran parte degli agricoltori americani sarebbe fallita, vista la caduta dei prezzi delle produzioni tradizionali, a partire dal mais.
E chi sono gli agricoltori statunitensi? L’America della Corn Belt – l’area del mais, cereale di cui gli Usa sono i più grandi produttori mondiali – che comprende gli Stati del midwest. In ordine di volumi produttivi: Iowa, Nebraska, Illinois, Minnesota, South Dakota, Indiana, Michigan, Kansas e Missouri. A cui aggiungere l’Ohio. Con le sole eccezioni di Illinois e Minnesota, si tratta di Stati dove i farmer hanno votato in massa per Trump. Sarà quindi difficile per il presidente voltare le spalle a questa America tradizionalista e rurale che tira avanti grazie all’opportunità offerta dalla produzione di biocarburanti.
Quanto all’energia solare, e in particolare a quella fotovoltaica, gli Stati Uniti hanno conquistato negli ultimi anni sia la leadership tecnologica mondiale, sia la leadership nei costi. Senza che i più se ne siano accorti, il fotovoltaico – quando adottato in grandi centrali di produzione – ha conquistato la cosiddetta parity grid nelle aree ad alta insolazione, cioè una sostanziale parità di costo rispetto alla media delle altre fonti di energia. Nei prossimi anni, il continuo avanzare della tecnologia e l’abbattimento ulteriore dei costi renderanno i più importanti produttori americani potenziali protagonisti di un’espansione mondiale che difficilmente potrà essere contrastata da altri Paesi. La Cina, che sembrava destinata a dominare i mercati grazie a costi stracciati, sta pagando il prezzo di una tecnologia più vetusta e di un eccesso di capacità produttiva, che rischia di mandare a gambe all’aria molti produttori della prima tigre asiatica. Anche in questo caso, non sarà un gioco facile per Trump chiudere gli occhi di fronte a un primato a stelle e strisce.
Insomma, sarà facile per Trump mandare in soffitta il cambiamento climatico, l’iper-regolazione, e le preoccupazioni ambientali che hanno accompagnato lo sviluppo dei temi energetici negli ultimi anni. Ma non gli sarà facile confrontarsi da chief commander con le dure leggi dell’economia che renderanno ogni scelta in tema di energia piena di trappole ed effetti boomerang. E tra le leggi dell’economia derivate dalla matematica ce n’è una che studia le diverse condizioni che si presentano nel momento in cui si debbano compiere scelte strategiche individuali, quando cioè un risultato non dipende solamente dalle proprie scelte. Forse è il caso che un “gambler” come Donald Trump dia una ripassatina alla “Teoria dei giochi”.